Aiaiay,
Prisma Editori,
1989
traduzione di Luigi Maccione
pp. 125

 

Quarta di copertina

    Dopo il grande successo argentino, ecco finalmente in italiano l'esordio folgorante di Enrique Butti. La critica argentina ha evocato, per questo romanzo, oltre al dovuto Kafka di "America", il cui Gran Circo di oklahoma (finalmente 'tutti artisti'?) irrompe nel romanzo fin dalla prima riga, i grandi nomi della narrativa latino-americana contemporanea, Borges - per il gusto dell'atemporalità, Puig - per i monologhi debordanti, Marquez - per i modi fabulatori.
    Dalla massa dei personaggi del paesino-microcosmo Rio Seco emergono, in tutta la loro grottesca comicità, personaggi destinati a rimanere a lungo nella memoria del lettore, coerenti, nel loro tuttotondo psicologico, pur nell'affiorare delle tipiche nevrosi logorroiche da paese. Un romanzo che unisce il verosimile al fantastico, il ridicolo al poetico, l'umoristico al mistico, il leggendario al quotidiano, l'assurdo al logico; un romanzo che si pone in quella zona che produce nel lettore 'la sospensione volontaria dell'incredulità'.

 


La prima pagina

    Il Grande Circo di Oklahoma cominciò ad arrivare a Rio Seco il giorno dell'Epifania. Nessuno se l'aspettava. Credevamo fosse giunta la fine del Mondo.
    La prima apparizione fu un fantasma che pochi videro perché era l'ora della siesta più calda dell'anno.
    Un gruppo di ragazzi giocavano saltando su tavole di legno che attraversavano l'asfalto cedevole, e forse fu proprio la casuale disposizione delle assi in croci e mantra ad originare il sortilegio.
    Gli adulti ancora svegli erano pochi. Don Rolo desisteva, in quel preciso istante, dal suo atroce proposito. Era il terzo giorno che se ne stava a fissare il sole da quando l'astro nasceva fino a quando si nascondeva, vergognoso per l'affronto. Solo il suo discepolo, Rolito, che sono io, assisteva alla sconfitta, anche lui mezzo cieco per aver tanto controllato gli occhi, i diamanti, le braci del maestro.
    Mamita stava in piazza, agitandosi come un'ape tra i fiori, perché dice che il caldo lo fa sentire in calore. Una voluttà che gli nasce dalle tonsille e si sparge come marmellata bollente per tutto il corpo; una voluttà che non richiede amanti, dice.
    La Campana stava appostata, fissa, con tutto il calore che gli scendeva giù per le gambe flebitiche, consolandosi con l'agonia di una mosca contro i vetri della finestra...

 

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